John, uno di noi.
Crudele, onesto, sincero come il gioco stesso
Certo, c’è chi ritrova miracolosamente le palline, chi dimentica di segnare un tiro, chi spaccia un air shot per una prova e chi sul green marca la sua palla come un prestigiatore per guadagnare un centimetro. Ma in fondo in fondo tutti questi trucchetti patetici non sono in grado di ingannare il campo (o gli altri giocatori che qualche volta chiudono un occhio e qualche volta no), perché il golf è per sua natura un gioco onesto e fin troppo sincero. Talmente onesto e sincero da risultare crudele e senza pietà. Un po’ come John Updike in “Sogni di golf”.
Un libro caro a tutti i golfisti che lo hanno letto. Una raccolta di racconti preziosa per chi vuole ritrovare tutto il meglio e tutto il peggio di questo gioco meraviglioso.
John Updike scoprì il golf a 25 anni nel giardino di una sua zia acquisita, che gli mise in mano un bastone e indicando la pallina gli diede poche semplice istruzioni: “colpiscila come col dorso della mano sinistra”. Da allora questo scrittore americano instancabile – due volte candidato al Nobel per la letteratura e due volte vincitore del Pulitzer – non ha più smesso di giocare a golf. E anche se non ha mai scritto un intero libro dedicato al gioco, ha parlato di golf nelle sue storie, ne ha fatto l’oggetto di racconti e gli ha dedicato articoli e brevi saggi. Il risultato della raccolta di tutti questi scritti è appunto “Sogni di golf” (Guanda 1998, 213 pagine).
Nel libro c’è di tutto: c’è l’euforia infantile del colpo riuscito e la disperazione della flappa, c’è il disagio di tirare sotto lo sguardo di un caddie che ti giudica con sufficienza e le difficoltà di riuscire a compiacere il maestro. Ci sono i consigli, un’infinità di consigli: cosa dice Ben Hogan e cosa dice Gary Player e cosa consiglia Leadbetter e cosa faceva Bobby Jones e cosa bisognerebbe fare secondo Jack Nicklaus. Cosa fare e cosa non fare e come lo fa Tiger Woods e come lo farebbe Harvey Penick. Le tecniche, gli allineamenti, i movimenti del corpo, i pensieri da pensare e quelli da cancellare e cosa visualizzare e quel milione di cose che tutti ci siamo sentiti ripetere un milione di volte. Che in teoria sappiamo a memoria, ma sempre così difficili da mettere – e da ripetere – in pratica. Insomma, ci siamo noi, con tutti i nostri difetti e il nostro – mai ripagato – grande amore.
John Updike, con il suo 18 di handicap e più di 60 libri scritti, pubblicati e molti premiati, è capace più di ogni altro di comunicare al cuore del golfista vero, quello autentico, quello non più nel fiore degli anni, che con qualche chilo di troppo e un handicap a due cifre abbondanti ignora testardamente tutte le frustrazioni che il golf gli ha inflitto e imperterrito continua a presentarsi al tee della 1 ogni volta che può. In “Sogni di golf” ci sono pezzi esilaranti, come quando descrive – come lo si farebbe su un manuale di golf – come servirsi una tazza di té. Ne riporto un frammento:
“ Addressate la tazza sedendo in posizione eretta, il torace forma un angolo retto col braccio teso di chi vi sta offrendo la tazza… guardatevi dall’assumere posizioni rilassate e scomposte, in cui il piano frontale della gabbia toracica risulti obliquo rispetto alla linea di approccio della tazza… Nel prendere la tazza, innanzi tutto toccate, leggeri come una piuma, il bordo del piattino con il polpastrello dell’indice della mano destra (i mancini leggeranno tutte queste indicazioni al rovescio)… la prima nocca del dito medio scivolerà verso il centro della faccia inferiore del piattino, quella che non si può vedere, mentre la punta del pollice dovrà coordinare questa azione…” e avanti così.
L’ironia di Updike non risparmia nemmeno la metodologia di alcuni testi sacri della tecnica del golf. Ogni racconto è una confessione e ogni confessione è ricca di rivelazioni utilissime, di suggerimenti preziosi, di indicazioni pratiche efficientissime. Con un tono confidenziale e calvinianamente “leggero”, Updike plana dall’alto sui fairway per individuarne ogni segreto e con grande franchezza rivelarcelo. E parlando di sé con schiettezza ammette: “ In un foursome, io dò il mio meglio in campo quando il mio compagno è un tipo fidato e un eccellente giocatore, e se i nostri avversari sono in qualche modo fisicamente impediti. Mal di schiena, ginocchia e mani artritiche, enfisema, lenti bifocali nuove di zecca, e la sabbia nelle lenti a contatto sono, fra i disturbi fisici altrui, quelli che mi danno più sicurezza in campo e mi mettono più a mio agio, permettendomi di fare lo swing, come consiglia Sam Snead, all’ottantacinque per cento della mia forza”.
Un libro spassoso in cui riconoscersi e da cui apprendere l’arte sofisticata di prendere alla leggera il gioco e la vita.
“Sogni di golf”, John Updike (Guanda 1998)
@Carlo Simonetti